La Transizione Analogico-Digitale
Tratto (in parte) dall’intervento
al Convegno ISIMM-AGCOM:
“Servizio Pubblico e Pluralismo Televisivo
Nell’Era del Digitale Terrestre”
Roma 18-19 Novembre 2002
…..
Vogliamo
ora approfondire in maggior dettaglio gli elementi che rendono estremamente critica la transizione analogico-digitale.
Il
processo di transizione avrà come inevitabile punto di partenza lo scenario
attuale dell’emittenza televisiva. In tale scenario
tutte le reti operano in tecnologia analogica e utilizzano la
diversificazione delle frequenze per minimizzare l’interferenza (reti multi-frequenza, MFN). Questa caratteristica ha condizionato
la struttura delle reti analogiche che impiegano, in modo poco efficiente,
frequenze diverse in trasmettitori destinati a servire lo stesso bacino (ad
esempio regionale).
La
situazione attuale è il prodotto di anni di evoluzione
caotica dell’uso della banda di frequenze destinata alle trasmissioni
radio-televisive. Per avere un quadro della situazione, si osservi che i dati a
disposizione dell’ERO e che fotografano la situazione
del nostro Paese anche ai fini del coordinamento internazionale, segnalano
l’esistenza di 23.506 frequenze utilizzate (trasmettitori in esercizio) dai
nostri “broadcaster”. È un numero significativamente
più alto di quello degli altri paesi. Si pensi che le frequenze utilizzate in
Francia sono 12.455 mentre quelle utilizzate in Germania sono 10.099 (dati di
Maggio 2002).
L’altissimo
numero di frequenze in uso e il conseguente livello di interferenza,
misurabile sia sul campo che attraverso accurate simulazioni, ha una serie di
effetti negativi sul processo di transizione. Il primo e più ovvio è la mancanza di frequenze libere per
avviare il servizio digitale. Un secondo problema è costituito dal fatto che
l’alta interferenza dei nostri impianti indebolisce il potere contrattuale del
Ministero delle Comunicazioni nell’attività di coordinamento internazionale. Tale debolezza è per noi tanto più grave in quanto, a causa dell’alto numero di operatori,
l’Italia ha un assoluto bisogno di difendere ogni possibile frequenza
dall’interferenza dei paesi confinanti.
A
proposito della mancanza di frequenze libere vogliamo
osservare come la Legge 66 del 2001 avesse introdotto la possibilità di
acquistare o vendere frequenze per avviare la sperimentazione del digitale
terrestre (“trading”). Il “trading” non si è rivelato un mezzo efficace di razionalizzazione dello spettro. Infatti, in
presenza di un altissimo livello di interferenza e di nessuna
certificazione sull’effettiva estensione delle aree di servizio, la
compravendita delle frequenze risulta altamente rischiosa per chi
acquista. L’unico uso ragionevole per le
frequenze acquisite è quello cosiddetto “difensivo”, nel quale un operatore
acquista la frequenza per eliminare una fonte di
interferenza ad un suo trasmettitore in servizio.
Altra
caratteristica dello scenario attuale, molto rilevante ai fini della
pianificazione della transizione, è quella della presenza di frequenze ridondanti. Tutte le volte che
trasmettitori diversi diffondono lo stesso
programma su frequenze diverse e le aree di servizio hanno un’ampia
intersezione, abbiamo una ridondanza di copertura. I “broadcaster”
utilizzano tali ridondanze per la gestione delle emergenze e per assicurare una
copertura capillare del territorio.
Le
coperture ridondanti sono però testimonianza di un’evoluzione non programmata e
inefficiente delle reti. A tale proposito si osservi che le principali reti RAI e MEDIASET sono realizzate utilizzando circa 1600
frequenze (trasmettitori) mentre la rete di riferimento proposta dal Piano
Analogico utilizza 476 frequenze per servire l’85% del territorio. Anche
tenendo conto dell’alto numero di frequenze necessarie a coprire il residuo 15%
(marginale), appare evidente come esista un’ampia
ridondanza di copertura. Per completezza dobbiamo osservare che il fenomeno
delle frequenze ridondanti non è limitato ai soli operatori nazionali.
Concludiamo la breve analisi dello scenario attuale sottolineando
l’uso fortemente sbilanciato delle frequenze da parte degli
operatori. A tale proposito ricordiamo che tutte le reti nazionali definite dal
Piano Analogico utilizzano lo stesso numero di frequenze (476) per servire l’85% del territorio. Al contrario, nello scenario attuale,
le tre reti RAI utilizzano circa 5400 frequenze mentre le tre reti MEDIASET ne
utilizzano circa 4800. Questo significa che 6 programmi nazionali utilizzano
circa la metà delle frequenze totali mentre le rimanenti 12000 frequenze sono
utilizzate da circa 1000 programmi nazionali e locali. Siamo quindi di fronte
ad uno scenario che, contemporaneamente, ha caratteristiche di forte concentrazione
e di altissima polverizzazione nell’uso delle
frequenze.
Riassumendo:
Ø Nessuna
certificazione della qualità delle frequenze. La struttura delle reti è infatti ignota, così come
non si conoscono
l’entità dell’interferenza e del servizio. Il numero di
trasmettitori in esercizio (?) è enorme.
La scarsa conoscenza
della situazione “sul campo” non consente di certificare la qualità dei canali
“liberi” (ovvero non utilizzati da alcun operatore).
Interrogato da un
eventuale acquirente sulla qualità di un canale da acquisire per le
trasmissioni digitali, Il Ministero delle Comunicazioni non sarebbe in grado di
rispondere se non attraverso misurazioni sul campo. Purtroppo, come sappiamo,
la situazione sul campo non è mai misurabile in modo
completo e continuo nel tempo. Di conseguenza, l’acquisto di canali da
destinare al servizio è impossibile.
Si tratta di un
mercato immobiliare nel quale non esiste il catasto.
L’acquisto può invece
essere effettuato a scopo “difensivo” e cioè per
spegnere canali interferenti. Questa acquisizione può essere effettuata
da chi già possiede canali liberi e ne vuole ampliare l’area di servizio
eliminando “disturbatori noti”.
Ovviamente, per i
motivi appena detti è molto difficile per il Ministero verificare se un
progetto di sperimentazione digitale presentato da un operatore provochi o meno disturbi sulle reti (analogiche o digitali)
esistenti.
Nell’ambito delle
attività di Coordinamento Internazionale il nostro Paese ha
inviato all’ERO l’elenco dei trasmettitori analogici attivi sul
territorio nazionale. Il loro numero è pari a 23.506. Un numero enorme se si
pensa che la Germania ne ha dichiarati 10.099 e la
Francia 12.455. Tentativi di simulazione del servizio basati su questi dati
mostrano con chiarezza la loro parziale inattendibilità. Infatti, è possibile verificare per via simulativa
che, se tutti questi trasmettitori fossero effettivamente in servizio con le
caratteristiche dichiarate, allora su città come Roma e Milano nessun canale
analogico (programma) sarebbe ricevibile con qualità
“accettabile”.
Detto “en
passant”, questa situazione pone il nostro Paese in
una difficilissima posizione contrattuale nella complessa fase di negoziazione
dei coordinamenti internazionali relativi all’Accordo di Chester
(per il DVB-T) e nei lavori preparatori alla Revisione
dell’Accordo di Stoccolma 61.
Ø
RAI e Mediaset utilizzano circa 10.000 canali (su 23.506)
per 6 reti nazionali. Molti di questi canali sono “ridondanti”. Questa
Posizione di forza sul mercato
consente loro di pianificare con successo un numero limitato di “multiplex” digitali.
La
dimensione media di una rete RAI/Mediaset è di circa
1.600 frequenze. Se si escludono qualche centinaio di frequenze necessarie per
la copertura di zone marginali e si confronta questo numero con quello previsto dal Piano Analogico (476) o dal Piano
Digitale (267) si comprende immediatamente come la ridondanza sia molto alta. Anche considerando le necessità “difensive” delle reti
maggiori nel nostro caotico etere, è facile ipotizzare che RAI e Mediaset possano essere in grado, senza acquisire nuovi
canali, di realizzare reti digitali con buona copertura territoriale.
RAI e Mediaset possono utilizzare le “ridondanze” delle loro
coperture per sfruttare al meglio le poche frequenze libere disponibili sul
mercato. Questo risultato può essere raggiunto acquisendo frequenze di
“disturbo” o “ben coordinate” con le numerose frequenze ridondanti di cui
dispongono i due operatori dominanti sulle principali aree di servizio.
2. Elementi critici del processo transizione
La
transizione analogico-digitale sarà certamente un processo complesso del quale,
al momento, si ignorano caratteristiche e criticità.
Solo un confronto tra la situazione attuale e la situazione a regime e tra le
caratteristiche delle reti digitali e quelle delle reti analogiche può consentire di prefigurare gli elementi critici del
processo ed i pericoli nascosti nella transizione.
Il
principale obiettivo della fase di transizione dovrà essere, inevitabilmente,
quello di proteggere le trasmissioni analogiche dall’interferenza delle nuove
reti digitali.
Le
trasmissioni analogiche sono seguite da milioni di spettatori e costituiscono
l’unica fonte di reddito pubblicitario di tutti i “broadcaster”
italiani. Una diminuzione della qualità della ricezione o dell’estensione del
servizio, anche per periodi limitati, potrebbe causare gravi perdite economiche
e mettere a serio rischio un settore fondamentale dell’economia del Paese. Di
conseguenza, l’attivazione delle nuove reti digitali dovrà essere effettuata utilizzando frequenze non utilizzate per le
trasmissioni analogiche (“libere”) e a scarso impatto interferenziale.
Questa
osservazione, assieme a quanto detto nel paragrafo precedente riguardo
all’assenza di frequenze libere, implica in maniera evidente che le frequenze
privilegiate per la prima fase della transizione dovranno essere quelle libere
(poche) e quelle attualmente destinate alle coperture
ridondanti. Nelle fasi successive potrà instaurarsi un “ciclo virtuoso” di
passaggio di programmi dall’analogico al digitale con contestuale
liberazione delle frequenze.
Un
secondo elemento di criticità è costituito dalla differenza in termini di
struttura tra le reti analogiche e quelle digitali. Come detto nel precedente
paragrafo, le reti analogiche sono reti multi-frequenza
(MFN). Per coprire una regione come la Lombardia, una rete nazionale o una rete
regionale deve utilizzare decine di frequenze diverse. Tale fenomeno è
ulteriormente peggiorato dal meccanismo caotico di acquisizione
delle frequenze che ha caratterizzato la nascita e lo sviluppo di tutte le reti
analogiche (con l’eccezione della RAI). Al contrario, la struttura di una rete
digitale risulta tanto più efficiente e il suo
servizio di miglior qualità quanto più essa riesce ad utilizzare la stessa
frequenza in trasmettitori destinati a servire lo stesso bacino (reti
singola frequenza, SFN).
La
situazione di partenza prevede dunque reti multi-frequenza analogiche mentre il Piano prevede
reti digitali singola-frequenza regionali (ogni rete
regionale e ogni rete nazionale utilizza una sola frequenza per regione). Il
processo di transizione deve quindi prevedere la trasformazione delle reti MFN
analogiche in reti MFN digitali (inevitabili nella prima fase della
transizione) e, successivamente, in reti 3-SFN
digitali.
Questo
processo di trasformazione della struttura delle reti
ha due pericoli molto evidenti.
Il
primo è che il processo si arresti alla fase di trasformazione delle reti
analogiche MFN in reti digitali MFN. In tal caso la situazione caotica
analogica si trasformerebbe in una situazione caotica digitale, con inevitabile
perdita di risorse e diminuzione del numero di reti effettivamente ricevibili.
Si avrebbe cioè quella situazione di “stallo” più
volte paventata.
Il
secondo pericolo insito nella trasformazione
strutturale è che la previsione di reti SFN a regime provochi una distorsione
del mercato delle frequenze e generi rendite di posizione per gli operatori che
attualmente utilizzano frequenze indispensabili per la realizzazione di reti singola-frequenza.
Gli
altri paesi europei seguiranno una strategia messa a punto in sede ERO:
utilizzeranno, per avviare le trasmissioni digitali, le frequenze diverse da (e
non interferenti con) quelle utilizzate per diffondere i programmi analogici;
limiteranno il “simulcast” (ovvero la trasmissione di
programmi già trasmessi in analogico) per favorire l’interesse degli utenti e
la diffusione dei ricevitori;
“spegneranno” progressivamente le frequenze analogiche mano a mano che
le reti digitali raggiungeranno coperture di popolazione superiori al 90%,
anche sfruttando la diffusione di media alternativi come il cavo e il
satellite. Purtroppo questa strategia è inapplicabile nel “caso Italia” per vari motivi.
Il primo e più evidente è che nel
caso degli altri paesi si tratta di un passaggio da una situazione ordinata
analogica ad una soluzione ordinata digitale, mentre nel nostro caso si
tratterebbe di un passaggio dal caos analogico ad una situazione speculare di
caos digitale, acuita dall’impossibilità di realizzare reti SFN. Inoltre, in
Italia non esistono media alternativi (l’88% degli italiani è servito
esclusivamente dalla televisione analogica); esistono poche frequenze
libere e, come detto nel paragrafo precedente, la loro qualità non è
certificabile; la Legge Gasparri incoraggia il “simulcast” invece di scoraggiarlo.
Infine, un elemento di
complessità tutto italiano è legato all’altissimo numero di operatori
titolari di concessione analogica e alla necessità di assicurare loro la
possibilità di realizzare la trasformazione delle proprie reti in tecnica
digitale. Questa esigenza può essere soddisfatta solo incrementando il numero
di programmi irradiabili con la realizzazione delle
reti di II° livello. Tale possibilità diviene tuttavia impraticabile se le reti
nazionali e regionali vengono realizzate con una
struttura multi-frequenza.
Un
ulteriore (!) elemento di difficoltà del processo di transizione, si è rivelato
durante alcuni esperimenti simulativi effettuati
presso il Dipartimento di Informatica e Sistemistica dell’Università di Roma
“La Sapienza”, ed è quello della necessità di un coordinamento della
sequenza temporale delle modifiche da effettuare sulle reti nelle varie
fasi della transizione.
Per
meglio comprendere questa difficoltà si consideri il seguente esempio.
Supponiamo che, in una certa fase della transizione, più operatori richiedano
contemporaneamente l’autorizzazione al Ministero per modificare le
caratteristiche delle proprie reti analogiche e/o digitali (localizzazione
dei trasmettitori, frequenze, polarizzazioni, diagrammi d’antenna etc.) nei
successivi sei mesi. Supponiamo inoltre che, seguendo una procedura tecnica
assolutamente standard, il Ministero analizzi le modifiche proposte, con misure
e simulazioni, e concluda che esse sono compatibili a
regime ma che durante i sei mesi richiesti dalla trasformazione le modifiche
possono causare gravi interferenze agli utenti se non svolte secondo una
sequenza temporale specifica. A questo punto il Ministero dovrebbe avere il
potere di prescrivere agli operatori la sequenza temporale delle
modifiche.
È
molto facile costruire esempi pratici di transizione nei quali la mancanza di
una prescrizione da parte di un organismo centrale conduce ad una situazione di
“stallo” nella quale: (a) l’attuazione delle modifiche non è terminata per
tutti gli operatori; (b) il completamento delle modifiche previste da parte di
qualcuno di essi conduce ad una significativa perdita
di servizio analogico.
In conclusione, strategie del tipo “primo
arrivato-primo servito” non garantiscono il soddisfacimento di tutte le
esigenze e, quindi: il coordinamento e il sequenziamento
temporale di proposte di modifica concorrenti dovrà sempre essere effettuato in
modo centralizzato e ottimizzato.
Un
ultimo elemento di criticità del processo di
transizione è costituito dalle modifiche necessarie per mettere in condizione
gli utenti di ricevere le trasmissioni digitali. Tali modifiche, relative ai
sistemi d’antenna e alla necessità di aggiungere un “decoder” alla dotazione
tradizionale, dovranno infatti essere incentivate e
coordinate con la progressiva introduzione del servizio digitale.
3.
Conclusioni
La transizione
analogico/digitale non può essere lasciata al mercato per i seguenti
motivi:
· Il processo è complesso, richiede il passaggio
da uno schema multi-frequenza ad uno
singola-frequenza regionale. La transizione deve
avvenire garantendo le trasmissioni analogiche. Tutti debbono
avere la possibilità di iniziare le sperimentazioni digitali. Quindi, c’è bisogno di una cabina di regia tecnica.
· Il processo di transizione è più complesso nel
nostro Paese a causa della saturazione dei canali disponibili, dell’assenza di
modi di trasmissione alternativi (cavo e satellite) e,
soprattutto, dell’assenza di un quadro esatto della situazione “sul campo”.
· I due operatori principali (RAI e Mediaset) sono i soli a poter realizzare reti a copertura
nazionale (eventualmente in collaborazione con realtà locali minori)
utilizzando frequenze ridondanti e razionalizzando le proprie reti. Quindi, il processo di transizione è nelle mani dei duopolisti incombenti. In questa situazione solo misure
asimmetriche e un coordinamento della transizione possono evitare che dal
duopolio imperfetto analogico si passi al duopolio perfetto digitale (con la
scomparsa dell’emittenza locale).